martedì 14 dicembre 2010

Il Digiuno del 10 di Tevet

In massechet Rosh Hashanàh (18b) da un versetto in Zechariàh (5,19) i chakhamim imparano quali sono le date dei digiuni pubblici[2]; seguendo l’ordine nel versetto: il 17 di Tammuz, il 9 di Av, il 3 di Tishrè (Tzom Ghedaliàh) e il 10 di Tevet. Questi sono digiuni pubblici per tutto il popolo ebraico a causa delle disgrazie accadute in quei giorni. Tra poco avremo il 10 di Tevet. Ma perché digiuniamo?

Circostanze del digiuno del 10 di Tevet

Il giorno del 10 di Tevet abbiamo diversi eventi poco lieti da ricordare; il principale per questo digiuno è che in tale giorno il Re Nevuchadnezzar (spesso tradotto come Nabuccodonosor) ha assediato le mura di Jerushalaim תובב"א (che sia presto ricostruita e ristabilita nei nostri giorni Amen), sfociando, dopo poco più di due anni, nella distruzione del primo Beth HaMiqdash תובב"א. Oltre a questo evento, già grave di suo, abbiamo altri elementi che si aggiungono per rendere il 10 di Tevet un giorno di digiuno nel corso dei secoli.
Fondamentalmente abbiamo una regola, riportata dalla Mishnàh Beruràh (MB) 549:4 per la quale non si stabiliscono più digiuni troppo vicini tra loro per non far digiunare troppo spesso il pubblico. Questo secondo alcuni, vale anche per il digiuno del 10 di Tevet. Nello Shulchan 'Aruch (Orach Chajim 580:2) sono riportati alcuni giorni in cui sarebbe bene digiunare, anche se non c’è un digiuno pubblico fissato in essi. Tra questi troviamo l’8 e il 9 di Tevet.
Sul 9 di Tevet lo Shulchan 'Aruch dice che non è chiara esattamente l’evento per la quale si digiuna, e la MB (13) riporta che secondo alcuni in tale giorno è venuto a mancareעזרא הסופר  ‘Ezrà HaSofer ~ lo scriba ע"ה, grande capo d’Israel, che ha riportato parte del popolo in Eretz Israel dall’esilio babilonese, e che sotto la sua guida è stato ricostruito il Beth Hamiqdash, l’ultimo profeta del popolo d’Israel.

Il giorno su cui mi vorrei soffermare maggiormente è l’8 di Tevet; lo Shulchan 'Aruch riporta che la causa è la traduzione della Toràh HaQedoshàh in greco, sotto il re Talmai (solitamente identificato con Tolomeo II), che ha provocato tra le altre cose 3 giorni di oscurità nel mondo (l’8, il 9 e il 10), cosa tanto grave da essere paragonabile al vitello d’oro[3]. Il Rav “Me’am Lo’ez” la riporta[4]: il re Talmai, desideroso di approfondire i suoi studi anche su testi ebraici, ha inviato un ordine al Cohen Gadol di mandare dei saggi. Sono stati inviati per tale occasione 6 חכמים chakhamim ~ saggi per ogni tribù per un totale di 72. Al loro arrivo presso il re, dopo essere stati accolti in modo molto onorifico, ad ognuno è stata assegnata una stanza, e a sorpresa è stato rivelato loro (singolarmente) che avrebbero dovuto tradurre la Toràh in greco. Dopo 72 giorni sono riusciti a completare l’opera. Per miracolo, ogni singola copia era identica alle altre, con tanto di “correzioni” identiche. Queste “correzioni” servivano per ovviare possibili scorrette interpretazioni della Toràh HaQedoshàh. Per esempio anziché tradurre “In principio creò Eloqim il Cielo e la Terra” hanno tradotto “Eloqim creò in principio il Cielo e la Terra” per evitare che si pensasse chas veshalom che ci sia una divinità chiamata “Bereshit” ~ in principio. La ghemarà (9b) prosegue dicendo che l’unica lingua nella quale è possibile tradurre la Toràh è il greco, in base alla deduzione da un versetto, secondo alcune spiegazioni poiché il greco, similmente all’ebraico, ha parole plurivalenti. A questo punto la domanda nasce spontanea: Perché mai dovrebbe essere quindi un problema tradurre la Toràh, se abbiamo un versetto che “supporta” la traduzione in greco e che i chakhamim sono arrivati a creare traduzioni evitando possibili cattive interpretazioni? Inoltre, come può essere tanto grave da essere paragonabile al vitello d’oro? Proprio da qui possiamo comprendere. La ricezione della Toràh HaQedoshàh è stata fatta mediante il  נעשה ונשמע“Na’asèh venishmàh” il “faremo e ascolteremo” che presuppone che l’azione venga fatta nel momento debito, e che ci sia (deve esserci) un conseguente studio e approfondimento della questione, a seconda della portata del singolo; questa comprensione non deve però delimitare l’esecuzione della mizwàh in nessuna delle sue parti. L’incomprensione, se presente, dev’essere condizionata dalla nostra poca capacità nell’approfondire; solo a seguito dell’azione la motivazione potrà essere meglio comprensibile. Il vitello d’oro, in alcuni suoi aspetti, è la negazione di questo. E’ il  נשמע ונעשה“nishmàh vena’asèh” “ascolteremo e faremo” – se non comprendo come si deve (nonostante possa essere per la mia pigra incapacità di applicarmi o perché non mi siano stati impartiti gli strumenti necessari (non ho mai visto capire, tanto meno risolvere un’equazione differenziale da qualcuno che non sa eseguire una moltiplicazione)) non eseguo. Questo può portare a conseguenze disastrose: gli ebrei stessi, vedendo che Moshèh Rabbenu ע"ה non scese dal monte Sinai entro il tempo che si era calcolato, in modo erroneo, lo sostituirono con il vitello d’oro. Qui, con la traduzione della Toràh HaQedoshàh, si dà ampia possibilità a ciò. Non essendo correlata da studio della Toràh sheba’al peh (orale), non permette di comprendere a fondo, portando a creare diverse “interpretazioni”, basate semplicemente su un ragionamento, errato di partenza perché mancante di basi, ma nel suo complesso apparentemente corretto. Tali interpretazioni chas veshalom, come abbiamo visto nel corso dei secoli, possono portare alla negazione delle mizwot, o al limitamento di queste a situazioni particolari come “quando me la sento” o “solo quando arrivo a comprenderle”. Questi sono gli eventi che hanno portato al digiuno del 10 di Tevet, e ora spero sia molto più chiaro il loro significato. Possiamo, forse, Be”H trovare un nesso tra gli eventi: sono tutti inizi di degenerazione della comprensione della Toràh Haqqedoshàh in modo corretto, della profezia, del servizio nel Beth HaMiqdash. Allo stesso modo sono tutte cause che apparentemente non fanno presagire nulla di particolarmente grave, poiché in apparenza non sono questioni terribili. I chakhamim ci dicono quindi che dobbiamo digiunare, per capire che ogni azione ha delle conseguenze, ogni singola questione che affrontiamo giornalmente porta dei frutti, buoni o cattivi che siano. E a questo che dobbiamo cercare di riflettere, in particolare in questi giorni di digiuno. E’ risaputo infatti (MB 549:1) che il digiuno in sé non è il fine, ma un mezzo, per aumentare la Teshuvàh, il ritorno verso Hashem Itbarach. Avendo minimamente sfiorato la portata di questi eventi, dobbiamo anche conoscere le regole principali relative a questo digiuno che possiamo trovare tra gli altri articoli sui digiuni (etichetta digiuni)



[1] Fonti principali: Orach Chajim = OC; Mishnàh Beruràh =MB; Torat Hamo’adim =TH (7 se volume su Digiuni); Ben Ish Chai = BIC.
[2] Tranne Yom Hakippurim che è riportato direttamente nella Toràh (Vayqrà – Emor 23:26-32), mentre per il digiuno di Ester cfr. note su TH – Purim e il mese di Adar 3:1.
[3] Prima di continuare, vorrei fare notare a priori che questa non vuole chas veshalom essere una critica contro le traduzioni di testi di Toràh (che oramai purtroppo si rendono sempre più necessarie, a condizione che siano realizzate secondo la Toràh sheba’al  peh ~ orale, ora considerabile come costituita dal Talmud, poseqim, rishonim e acharonim – in sintesi definibili impropriamente come “fonti rabbiniche”). In ogni caso il discorso sarà più chiaro successivamente.
[4] In Bereshit A,33-35 è riportata in alcuni punti in modo più ampio rispetto a Meghillàh 9, basandosi su ulteriori fonti. Sarà comunque, per ragioni di spazio, parzialmente riassunta. Si consiglia vivamente l’approfondimento dell’argomento. Lo scopo che si vuole raggiungere è fornire alcuni fondamenti di conoscenza di questioni basilari.

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